DA: IL GIORNALE.itLa leggenda dell’industriale che è stato incoronato vicerédi Redazione - 31 dicembre 2011, 08:00 stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
Ha già investito 600.000 euro in Africa e conta di arrivare in breve tempo a 2 milioni, senza guadagnarci nulla. Piuttosto insensato per un pensionato di 84 anni che ha sempre fatto l'imprenditore e ora vive di rendita. Ma nell'età in cui sembrava avviato a occuparsi soltanto dell'Ordine lomellino della rana e del salame d'oca, da lui istituito un quarto di secolo fa, a Franco Magni è capitata una straordinaria avventura, tanto che un giorno forse sarà ricordato come Franco Magno: lo hanno proclamato vicerè. È accaduto ad Ayamè, città della Costa d'Avorio fondata nel 1885 dal re Brou Dishi´, sovrano degli Agnis del Sanwi, etnia cui ancora appartiene la maggior parte degli abitanti. Alla suggestiva cerimonia erano presenti le massime autorità statali e municipali, perchè il regno di Sanwi - otto cantoni presieduti da un sovrano che funge da capo villaggio - riveste un ruolo determinante nella vita sociale della comunità, soprattutto quando vi sono da comporre le frequenti liti di natura civile. Essendo stata la Costa d'Avorio una colonia della Francia fino al 1960, ad Ayam´ funzionano ancora sia l'ordinamento statale francese che quello tribale. La corona pesa 390 grammi, il collare con pendente 300, il bracciale 130, l'anello 11. In totale 831 grammi di roba che Nanan Bosson Thomas, re di Ayam´ del cantone di Djandji, il più importante, ha posto sul capo, appeso al collo, stretto al bicipite e infilato al dito di Magni. A prima vista sembrerebbe tutto oro quello che luccica, e per di più finemente lavorato in filigrana, ma il vicer´ non ha nessuna voglia di rivolgersi a un gioielliere per una stima. «I calzari rossi li ho lasciati laggiù. Idem il mantello regale: troppo pesante per metterlo in valigia». Il neosovrano è fatto così: disinteressato. Non si spiegherebbe, altrimenti, come mai buona parte delle sue sostanze sia stata destinata alla Fondazione Magni per Ayamè, che ha già comprato e messo a coltivazione 200 ettari di terreno, assunto 40 operai locali, preso in carico i 53 bimbi (orfani, abbandonati, sieropositivi) ospitati nella pouponnière, progettato una scuola professionale, trasformato 10 chilometri di viottoli del centro urbano in strade percorribili dai veicoli. Ora il mecenate sta per avviare la costruzione del Domaine La Renaissance, una cittadella ispirata al Rinascimento che ad Ayam´ hanno già ribattezzato Città Magni, dotata di uffici, foresteria, magazzini, officina meccanica, distributore di benzina. Il vicerè Nanan Essahue Aka Tiemelè - laggiù lo chiamano così - è nato a Torino. Il padre Dante perse la casa nella seconda guerra mondiale, per cui nel 1945 trasferì la famiglia a Vigevano, dove aprì la Manifattura Magni, che produceva abiti per uomo. Dopo essersi diplomato ragioniere, Franco Magni s'iscrisse alla Bocconi. Nel frattempo lavorava come rappresentante per la ditta paterna, sicch´ al conseguimento della laurea aveva già messo da parte i 6 milioni di lire che nel 1950 gli consentirono di diventare socio del genitore nella manifattura. Nel 1954 sposò Elina Dondi, tuttora al suo fianco, dalla quale ha avuto due figli, Massimo e Gloria. Agli inizi degli anni Ottanta la Magni, con i suoi 850 dipendenti, era la più grande industria di Vigevano. Le imprese impossibili in terra straniera sono sempre state un pallino del vicerè di Ayamè. Nel 1970, ancora regnante lo Scià, fondò a Teheran, in Iran, un'azienda di confezioni, la Jamco. Nel 1974 impiantò la Full style a Istanbul, in Turchia. Nel 1976 aprì con un socio la Allegra & Magni ad Atene, in Grecia. Subito dopo avviò la produzione di abbigliamento su licenza a Osaka, in Giappone, per conto della Sanko Seyko, gruppo tessile con 70 stabilimenti. La crisi del settore lo costrinse a cessare l'attività manifatturiera e a ripiegare sulla costruzione del centro commerciale Il Ducale a Vigevano, 40.000 metri quadrati con 60 negozi e ipermercato. Ora vuol vendere la sua quota di maggioranza nel Sagittario, la società che detiene il 40 per cento del Ducale, allo scopo di finanziare le iniziative non profit in Costa d'Avorio. «Una decina d'anni fa. Una ragazza africana, Silvia Kokora, vede una coetanea in stato confusionale in una piazza di Pavia. Si ferma per aiutarla. Scopre che è ivoriana come lei: un'infermiera di Ayamè che si sta specializzando all'ospedale San Matteo, traumatizzata per il distacco dal suo villaggio, spaventata dal traffico e turbata dal fatto che gli italiani non si salutano per strada. La soccorritrice trova nella borsetta della giovane il numero di telefono del professor Ernesto Bettinelli, ordinario di diritto costituzionale all'Università di Pavia, presidente dell'Agenzia n. 1 per Ayamè, una Ong. Bettinelli rimane molto colpito da Silvia, che ha perso un pomeriggio per aiutare una sconosciuta. Nota che ha un problema agli occhi e la fa curare. Qualche anno dopo la giovane s'innamora di un connazionale; i due hanno una figlia, ma ben presto litigano, perché lei è di cultura francese e lui un musulmano osservante che considera la donna un essere inferiore. Silvia viene cacciata di casa, senza un quattrino, con una bimba di pochi mesi al collo. Bettinelli fa intervenire il professor Carlo Monteforte, direttore del reparto di ostetricia dell'ospedale di Vigevano, mio amico carissimo, il quale mi chiede se posso fare qualcosa». Mi lasci indovinare: l'ha fatto. «Ne ho parlato con mia moglie ed è subito diventata la nostra colf, nonostante avessimo già la donna di servizio. L'ho assunta solo per darle uno stipendio. Le ho anche firmato una fidejussione per la casa. Lo scorso 11 maggio s'è sposata a Mortara con un ivoriano e sono stato suo testimone di nozze. Ora aspetta un bambino, che nascerà ad aprile. Diciamo che l'ho un po' adottata, insieme con la figlioletta che oggi ha 5 anni». E l'altra ivoriana?. «È la capo infermiera dell'ospedale di Ayamè». Dove lei è vicerè. «Non ne sapevo nulla. L'ultima volta che sono sceso laggiù, a ottobre, Emi Massignan, la direttrice laica dell'Agenzia n. 1 per Ayamè, mi ha informato che il re Nanan Bosson Thomas mi stava preparando questa sorpresa. Emi ci mette l'anima, io i soldi». Mi racconti la cerimonia d'incoronazione. «Tre ore di danze e inchini. Per loro era una cosa molto seria, a me invece scappava da ridere. Poi una sera ho portato a cena il personale. Si sono unite le mogli. Era la prima volta che entravano in un ristorante. Solo lì ho capito il valore della gente che avevo davanti. Volevano baciarmi l'anello, come si fa col Papa. Ho detto loro: non dovete baciare la mano a nessuno, mai! Io li chiamo amis, amici. Loro restano interdetti. Lei immagini l'Italia del 1200 col principe benefattore, che in genere era un mascalzone però munifico, e il popolo in adorazione». Al referendum monarchia-repubblica del 1946 come avrebbe votato? «Monarchia. Però oggi non vorrei Emanuele Filiberto di Savoia come re, pur essendo simpaticissimo». Perchè aprire una fondazione in Africa? «È stata una scelta imprenditoriale, non filantropica, benchè per statuto io non incassi neppure un euro. Il territorio dalla Costa d'Avorio al Senegal ha 400 milioni di abitanti e potenzialità immense, con giacimenti di petrolio, oro, diamanti, manganese, nichel, bauxite. Ad Ayamè il terreno è fertile e c'è tantissima acqua, che è più importante del petrolio. I 40 agricoltori che ho assunto producono palma da olio, caffè, banane, manioca e cacao, di cui la Costa d'Avorio è il principale esportatore al mondo. Fra cinque anni faremo il primo raccolto di caucciù. Nel prossimo biennio acquisterò altri 300 ettari, ma l'obiettivo è di arrivare a 1.000». «Nessuno. Sono stato fortunato. È gente che lavora sodo. Zero assenteismo. Tenga conto che i pochi ivoriani che hanno un lavoro guadagnano non più di 2 euro al giorno e sgobbano dalle 10 alle 12 ore. Da me prendono 3 euro, più festività, tredicesima e ferie. Gli darei anche di più, ma sono stato caldamente dissuaso: la disparità di trattamento farebbe scoppiare una rivoluzione. Le uniche difficoltà nascono al momento di acquistare i terreni. Non capisci mai da chi compri e che cosa compri. Ho dovuto arruolare come consulente legale un giudice di Abidjan, l'ex capitale». Che cosa sperano di trovare in Italia gli africani che espatriano? «Il benessere. E lo trovano. Quelli che incontriamo per strada sono ricchi, perchè riescono a mandare soldi a casa. Nel loro Paese vengono considerati degli arrivati solo perchè in Italia guidano un'auto di terza mano. In Costa d'Avorio solo i potenti possono permettersi una macchina». «Sono privi di tenacia. Preferiscono venire in Europa. Oppure andare ad Abidjan a fare i soldati o le prostitute». E a lei non sta bene. «Non voglio regalargli il benessere, bensì insegnargli il senso della bellezza che salverà il mondo, come afferma il principe Miškin nell'Idiota di Dostoevskij. Per questo ho già dato incarico a un artista locale di dipingere all'ingresso del Domaine La Renaissance un affresco intitolato Il Quinto Stato». Non come Pellizza da Volpedo che s'è fermato al quarto. «Agli affamati puoi dare un piatto di minestra, agli ammalati una medicina, ma poi all'uomo devi offrire qualcosa in più e questo di più è la bellezza. Io non sono cattolico, sono un laico, non ho il dono della fede. Rispetto tantissimo la Chiesa ma non potrei mai recitare il Credo, per il semplice motivo che non ci credo. Però sono certo che la mancanza della dimensione spirituale è la rovina del mondo. A volte mio figlio mi rimprovera in chiave evangelica: “Se fai la beneficenza, la devi fare in silenzio”. Ma perchè? Io non faccio opere buone. Faccio l'imprenditore. La visibilità è il mio pane, un'azienda ha bisogno di comunicare. Altrimenti come avrei potuto parlare al cuore di quel mio amico banchiere che siede nel board dell'Ubs e che ora vuol mollare tutto per trasferirsi a fare il volontario ad Ayamè? E convincere l'architetto Sandro Rossi, vincitore del concorso per la riqualificazione della Darsena di Milano all'interno dell'Expo 2015, a regalarmi i progetti per la Città Magni di Ayamè?». Agli italiani che restano disoccupati a 50 anni non ci pensa? «Sono il meno adatto a rispondere. A 20 anni mi dissi che non volevo la pensione. E così ho fatto. Oggi non prendo assegni dalla Previdenza sociale. Per carità, non dico che tutti debbano fare così. Io sono un anarcoide. Ma quando uno Stato preleva il 50 per cento dei guadagni dalle tasche dei lavoratori, sotto forma di tasse, i cittadini non sono più uomini: diventano automi bisognosi di assistenza. Uno Stato virtuoso dovrebbe invece limitarsi a fare solo ciò di cui i privati non sono capaci». Lasciare 2 milioni di euro agli africani, anziché ai propri figli, non è da tutti. «Henry Ford dovette sostenere una causa contro i suoi discendenti. “I miei eredi”, disse, “non sono i miei i figli ma gli Stati Uniti d'America, che sono più grandi della famiglia”» Così parla un vicerè. «I miei figli approvano, ne sono sicuro».
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